“Palpacelli era davvero speciale. Eravamo rimasti colpiti dal suo talento, ma già al raduno si vedeva che era un ribelle: non gli stava bene niente, si lamentava in continuazione. Capita così coi talenti…”. Riano, provincia di Roma, un giorno del 1985. Dal telefono a gettoni del centro tecnico del Coni parte una chiamata: “Adriano, sono Paolo. Devi venire subito, qui c’è un under 16 che sta facendo un provino ma con gli altri non c’entra niente. Certo che dico sul serio. È mancino, la palla gli esce che è una meraviglia. Devi vederlo”. Paolo era Bertolucci. Adriano era Panatta.
Nei giorni scorsi, Federico Ferrero sul magazine “Il Tennis Italiano” ha raccontato la storia di Roberto Palpacelli, classe 1970, quello che sarebbe potuto diventare un fuoriclasse del tennis, in Italia e non solo. Uno che ha sprecato il suo talento con la droga, l’alcol e tutta una gamma di eccessi. Una carriera che – nel giudizio di gente del calibro di Panatta, Bertolucci, Canè e Nargiso – avrebbe potuto essere straordinaria e ricca di successi.
Panatta, allora direttore tecnico della Fit e pure febbricitante, va ugualmente a vedere quel ragazzino e resta folgorato. Lo convoca in segreteria: “Ragazzino, come ti chiami? Noi vogliamo farti entrare nel gruppo. Sì, in Nazionale: pensiamo a tutto noi, allenamenti, sistemazione, pasti. Dormirai con gli altri al residence Parioli in città, al mattino verrà il minibus a caricarvi”. Il “Palpa”, come lo chiamavano, risponde d’istinto di no. Ha già altre cose per la testa: “A quindici anni fumavo già le canne. L’anno dopo feci il primo tiro, intendo di eroina, e il problema fu che mi piacque”. Dice Bertolucci: “Mi è dispiaciuto molto, perché era un pezzo raro; sembrava la accarezzasse, la palla, poi partivano fucilate”.
Per leggere la storia completa di Palpacelli (“Ad Ascoli mi seguì il coach di Pietro Mennea, il mitico Carlo Vittori, e mi insegnò a usare i piedi. Dopo aver lavorato con lui, coprivo il campo con due passi”) conviene andare all’affascinante articolo di Ferrero. Ciò che ci interessa invece è il tema dei ragazzi di grandissimo talento sportivo che, per cause ambientali e motivi caratteriali, si perdono. Escono da una sicura carriera di enormi soddisfazioni e guadagni, per scivolare in un gorgo spesso più profondo di quello in cui scivolerebbero se non fossero campioncini di grandi speranze.
Timore delle pressioni? Paura di non reggere le aspettative? Auto-immagine distorta delle proprie capacità? Dialogo interno condizionato da incantesimi negativi? Tanti sono i temi in ballo quando si parla di ragazzini che escono fuoristrada. Se dal tennis passiamo al calcio (ma il discorso è replicabile per tutti gli sport) scopriremo l’esistenza di un esercito di invisibili, ai margini del calcio dei grandi. Promesse di calciatori di talento destinate a rimanere tali, tradite dalla competizione o dal carattere.
Da una ricerca di Repubblica emerge che tra i calciatori che escono dalle giovanili delle squadre di Serie A e B, solo il 5% riesce a giocare nella massima serie, il 10% in serie B, il 30% in serie C, mentre tutti gli altri precipitano tra i dilettanti oppure smettono di giocare. Alla fine di ogni campionato Primavera sono infatti più di 300, contando solo le squadre di serie A, quelli che vedono infrangersi il sogno per cui spesso hanno sacrificato gli studi.
CHAMPIONS LAB
Nell’ambito dell’ISMCI – la scuola internazionale per Sport Mental Coach fondata grazie alla competenza e all’esperienza di Roberto Re e sviluppata in collaborazione con Lorenzo Marconi, manager esperto nella realizzazione e gestione di progetti di start up – è nato già da alcuni mesi il programma “Champions LAB” che si occupa di far crescere e valorizzare i ragazzi di talento, con l’obiettivo di diventare un punto di riferimento internazionale per la gestione dei giovani atleti nel calcio, nel golf e in molte altre discipline.
Attraverso il mental coaching come elemento valoriale, si verificano le motivazioni, si forma un atteggiamento responsabile e si costruisce la personalità del giovane talento, si mettono le basi per realizzare degli obiettivi di crescita, minimizzando le possibilità che il ragazzo si perda per la strada.
Professionisti riconosciuti e autorevoli – con esperienza e know-how consolidati – grazie a un metodo scientifico e a una tecnologia innovativa, sono al servizio di giovani atleti fra i 15 e i 20 anni che hanno necessità di un sostegno mentale oltre che tecnico-agonistico. Fra i servizi erogati, c’è il mental coaching personalizzato, programmi di corretta nutrizione, preparazione atletica, fisioterapia, osteopatia e personal branding.
Jessica Rossi, medaglia d’oro nel Tiro alle Olimpiadi di Londra 2012, ha lavorato con Roberto Re anche in prossimità di quei Giochi. Nonostante la giovane età, i benefici del mental coaching non hanno tardato ad arrivare. “Fino a un anno fa non sapevo neanche cosa volesse dire prepararsi mentalmente – ha spiegato lei stessa dopo la medaglia olimpica – intorno ai Giochi ci sono molte più tensioni, molte pressioni, molto stress a livello mentale rispetto a una gara normale. Avevo deciso di fare quel gradino in più per prepararmi mentalmente e Roberto è stato veramente parte dell’impresa che ho ottenuto. Mi sono sentita programmata per vincere”.
Concludiamo con le parole di Franco Fatiga, già osservatore di Milan, Torino e Fiorentina e oggi agente attento ai giovani: “A prescindere dallo spazio che ti danno, deve accompagnarti la testa. Se non alleni il cervello, finisci per diventare uno dei tanti “disadattati” del calcio, che per non aver voglia di sacrificarsi o di migliorarsi finiscono lontano dal calcio professionistico. Ai ragazzi che seguo ricordo sempre che la scuola è determinante per avere un’alternativa ed educare la testa. E poi la Lega Pro è piena di talenti che avrebbero potuto arrivare in A, ma sono la dimostrazione che se non lavori duro, ragazzi meno dotati ma più maturi possono superarti”.