“Sì, Djokovic è forte… però vuoi mettere Federer o Nadal?”. Provate voi a convivere con questa credenza inculcata nella mente degli appassionati di tennis di tutto il mondo. Provate voi a sentirvi sempre ‘il terzo incomodo’ nel cuore dei tifosi. È un po’ come il figlio di mezzo, che fa di tutto per primeggiare (ottimi voti a scuola, comportamenti impeccabili in famiglia, disponibile con gli amici e galantuomo con le ragazze) salvo poi accorgersi che i genitori hanno sempre una buona parola per… gli altri due!
Novak è abituato a questo, gioca il suo tennis, si allena come un pazzo e tira avanti. Ma ne soffre. E quando la leva-dolore è così forte, è probabile che ti spinga laddove nessuno immaginava potessi arrivare. Ovvero a essere di nuovo il numero uno al mondo dopo due stagioni pessime, quando tutti gli addetti ai lavori cominciavano a sussurrare “non lotta più su ogni punto, si vede che ha esaurito la fame di vittorie…”.
Il tennista serbo è tornato lucido. Un mental coach che sa leggere le parole dei suoi atleti potrà prendere spunto da quanto lui stesso ha dichiarato a settembre, poco dopo il trionfo agli Us Open. “So che alla gente piace sempre fare confronti tra il gioco e la prestazione di un qualunque top player e qualche stagione passata in cui lui stesso dominava o giocava molto bene. Hanno fatto lo stesso con me, i media mi chiedono sempre che percentuale rappresenta questo Djokovic rispetto al Djokovic del 2015. Ma io ho sempre creduto come atteggiamento mentale che possiamo solo vivere il momento presente! E non voglio confrontare me stesso con il giocatore e la persona che ero tre anni fa perché la mia vita è stata completamente rivoluzionata da allora: sono diventato padre per due volte, sono rimasto per sei mesi lontano dal circuito, mi sono sottoposto a un intervento chirurgico, ho dovuto cambiare la racchetta, ho adattato altre piccole cose alla situazione attuale. Ecco perché mi sento un giocatore totalmente diverso”.
Si intuisce che, nell’epoca del dualismo perfetto Roger-Rafa, Novak parli da intruso, da terzo incomodo nel cuore degli appassionati. Una sudditanza mentale da cui ha cercato in tutti i modi di sottrarsi nel corso della carriera. Scrive Simone Eterno su Eurosport: “Fuori dal campo Djokovic è affabile, sempre disponibile, poliglotta e passateci il termine, a volte, anche un po’ ‘paraculo’. Dentro il campo, invece, si issa a gladiatore capace di nutrirsi del ‘tifo contro’ fino alla vittoria, fino al crollo di ogni possibile ostacolo”. Insomma, non è facile giocare sapendo che una fetta immensa di pubblico non si spellerà mai le mani fino in fondo per te. Sarai celebrato, ma non al massimo dei decibel. Amato senza dubbio, ma non quando dovrai sfidare Federer o Nadal.
Immaginiamo la sua mente in queste ore di rinascita. Tornato al vertice mondiale dopo due anni (il serbo ha risalito oltre venti posizioni in una sola stagione!), Novak è consapevole che il punto di svolta è stato Wimbledon, nel tempio del tennis, più precisamente nella semifinale contro Nadal vinta 10-8 al quinto set. Da quel 15 luglio non ha più sbagliato un passaggio, arrivando a conquistare l’Open degli Stati Uniti e qualificandosi per il Master di Parigi. Vittorie che lo hanno rimesso sul podio più alto della classifica mondiale.
Quando però un atleta entra nel cosiddetto ‘flusso positivo’, cosa pensa davvero dentro di sé? Può realmente convincersi di essere allo stesso livello di quei due maxi-campioni? Se guardiamo ai numeri, non ci sono dubbi. Djokovic continua a dominare gli scontri diretti con i due più forti di sempre (24-22 con Federer; 27-25 con Nadal). Ma le cifre bastano a convincere la propria mente?
Scrive Alex Bellini – esploratore e speaker motivazionale – a proposito dell’autoefficacia: “È la convinzione di saper svolgere un compito, una questione di saper fare. Sono capace di correre a questa velocità per tutta la durata della gara? Sono capace di servire la palla in modo efficace, potente e preciso? Sono capace di gestire lo stress che comporta giocare una finale a Wimbledon? La risposta che si ottiene – e il grado di certezza nella risposta – è un potente predittore del comportamento. Le ricerche svolte su diversi atleti dimostrano che i soggetti con un’elevata autoefficacia hanno, rispetto ad atleti con bassa autoefficacia, livelli più alti di tolleranza al dolore e allo sforzo. In generale, sono più disposti a perseverare davanti alle difficoltà della prova. Se so di potercela fare, sarò più disposto a tenere duro e ad andare avanti”.
Parole queste che fanno rima con le dichiarazioni di Djokovic: “Deriva tutto dall’autoconsapevolezza, dal tuo essere centrato, dal tuo essere nel giusto equilibrio, dal giusto stato mentale. Come atleta professionista, e in particolare come tennista, devo essere presente a me stesso in ogni momento. Perché appena l’attenzione scivola sul futuro o sul passato, non sono più in grado di essere al massimo in questo momento. Questa è l’unica cosa che posso influenzare”.
Qui e ora. È il mantra dei maestri olistici, dei filosofi zen. Ma soprattutto dei mental coach che lavorano con i professionisti di ogni livello.