
Due sono i soprannomi che i giornalisti sportivi avevano affibbiato ad Andy Murray: “Paziente scozzese” (rifacendo il verso al celebre romanzo, poi divenuto film) e “Ringo Starr del tennis”. Essendo Andy nato a Glasgow, il primo nomignolo è intuitivo. Il secondo, invece, è dovuto al fatto che Murray nelle classifiche mondiali ha occupato per diversi anni la quarta posizione, dopo le tre big star della racchetta: Federer, Nadal e Djokovic. Due credenze collettive, dunque. Due imprinting esterni che avrebbero potuto segnare per sempre la reputazione professionale di un ragazzo di 29 anni, unico britannico ad aver vinto Wimbledon dopo Fred Perry, che aveva trionfato nei lontanissimi anni Trenta.

Andy Murray con il Gentelmen’s Single Trophy
Lui però non si è mai rassegnato a quell’identità che tutti avevano riservato per lui. L’eterno “quarto” è arrivato invece a prendersi la rivincita e ha costretto i giornalisti a rimangiarsi quei due appellativi. Da qualche giorno infatti Murray è arrivato in cima al mondo dopo sette anni di attesa. Alla sua 12esima stagione da professionista, dopo quasi 800 partite e 42 titoli, lo scozzese si è seduto sulla poltrona lasciata libera da Novak Djokovic dopo 122 settimane. Il paziente ha avuto pazienza e non si è mai arreso. Ha continuato a credere nei propri mezzi, si è allenato come un matto cambiando anche coach (ha richiamato Ivan Lendl, che lo aveva già seguito fino al 2014). “Diventare il numero 1 al mondo – ha dichiarato in queste ore – è un obiettivo per il quale stavo lavorando dal 2009, da quando per la prima volta ero salito al secondo posto del ranking mondiale. Ma l’ultimo scalino è sempre il più alto!”
Ringo Starr si è preso la scena all’improvviso ed è come se fosse diventato il più famoso dei Beatles. Ha dovuto lottare, ha avuto la lucidità strategica di aspettare che i primi tre si consumassero: e ora se la gode. “È una delle cose migliori che mi potessero capitare – ha detto – anche perché, quando ho iniziato a giocare, mai avrei pensato di diventare il migliore”. Ecco dunque un’altra lezione per uno sportivo professionista, o per un coach che deve mantenere viva la motivazione di un suo talento in erba. Ai vertici non arrivano solo quelli che ci credono fin dalla prima ora: certo, partire convinti già dall’inizio in molti casi può aiutare la propria autostima (ma a patto però che ci si sappia rialzare dopo ogni sconfitta, consapevoli che un campione vero vincerà la guerra e non tutte le singole battaglie).
In cima alla montagna può arrivare anche una persona che scopre lungo il percorso la sua forza reale, da una parte grazie ai primi risultati positivi, ma dall’altra in virtù proprio di una strategia per obiettivi e di una visione più ampia rispetto agli avversari (che possono perdersi per strada) e rispetto al pubblico (di media e tifosi) che ti mette pressione e tende a buttarti giù dopo ogni risultato negativo. Il campione è un paziente perché sa aspettare. Sa cogliere il momento giusto, avendolo intuito poco prima. In quella fase, quando vede l’onda che sta per spingerlo da dietro, inizierà a dare il massimo, a concentrare la sua energia per farsi trovare pronto.
La maledizione è finita

I Chicago Cubs – vincitori delle World Series 2016 contro i Cleeveland Indians
Così hanno fatto in queste ore anche i Cubs, gli adorabili perdenti del baseball americano che non vincevano un titolo da 108 anni, da quando era presidente Theodore Roosevelt..!! Molto più di Murray, la squadra di Chicago era diventata nel tempo la barzelletta nazionale, quelli della sfiga innata (altra credenza negativa inflitta dall’esterno) che andavano in giro per gli Usa con una maledizione sulla testa. Qualche giorno fa hanno trionfato nelle World Series, battendo gli Indians di Cleveland, e riscrivendo finalmente il romanzo del baseball a stelle e strisce. Un po’ come il Leicester di Claudio Ranieri (che l’anno scorso ha trionfato nella Premier League inglese), ora tutto il mondo li abbraccia, a partire dal presidente Obama (nonostante sia tifoso della squadra rivale, i Chicago White Sox) che li ha invitati a festeggiare alla Casa Bianca.

Krys Bryant – Baseman dei Chicago Cubs
Dopo una lunghissima astinenza, anche i Cubs hanno lavorato per cambiare loro identità di “perdenti simpatici”. E piano piano hanno iniziato a risalire le classifiche. Si sono guardati in faccia e hanno giurato a loro stessi che avrebbero smesso di crogiolarsi in una narrazione raccontata da altri. “Era arrivato il momento di scrivere noi la nostra storia sportiva” hanno detto dopo la vittoria. Quando arriva il momento giusto, bisogna riconoscerlo qualche attimo prima. E farsi trovare pronti.