Il tennis è uno degli sport maggiormente “frequentato” dai mental coach. Sarà perché negli Stati Uniti, complice la presenza del fenomeno Anthony Robbins, molti atleti professionisti hanno già da tempo iniziato ad affiancare alla figura del tecnico/allenatore quella di un esperto in grado di aiutarli a mantenere la concentrazione durante le difficili fasi di un incontro.
Giocare a tennis – lo avrai di certo toccato con mano – è un’attività dove la mente può fare davvero la differenza. Nell’arco di una partita, in base alla capacità del tennista di rimanere concentrato e motivato alla vittoria, possono verificarsi improvvisi rovesciamenti di fronte. Più che mai in uno sport dove non è il cronometro a scandire la fine di un match. E dove il pubblico, costretto a fare silenzio, non può sospingere il proprio beniamino con gli incitamenti classici degli sport di squadra.
La testa, dunque, resta l’unico vero elemento responsabile dell’energia che un tennista può mettere in campo. Come dicono spesso i mental coach, “la mente per un atleta può rappresentare un freno spaventoso o un acceleratore straordinario”. Ma se, durante gli scambi, l’adrenalina del movimento può aiutare il campione a generare “la benzina” utile a sconfiggere l’avversario, è invece nei cambi di campo – in quei novanta secondi di pausa tra un game e l’altro – che risulta più difficile mantenere ferma la concentrazione ed evitare che il cervello cominci a farsi dei film negativi.
Abbiamo raccolto qualche curiosità per darti un’idea di quanto i tennisti – a volte in accordo con i loro mental coach – riescano a dare il meglio di sé mentre sono seduti a riposarsi. Qualche giorno fa al Masters di Londra, Andy Murray (primo tennista maschio britannico a vincere il torneo di Wimbledon nell’era Open) ha pensato bene, durante il match contro Nadal, di prendere le forbici e tagliarsi via un ricciolo di capelli: “Mi dava fastidio – avrebbe dichiarato dopo – e la mia concentrazione se ne stava andando completamente!”
C’è chi, come Serena Williams e Stan Wawrinka si fa servire un caffè per darsi una svegliata. E chi come l’indimenticabile Ilie Nastase arrivò addirittura a consumare un’intera colazione durante il cambio per protestare contro gli organizzatori che l’avevano mandato in campo alla mattina. Sembrano stranezze (e lo sono) ma in realtà aiutano a “interrompere il modulo”, a distogliere la mente dalla fatica e dalla negatività, per rigenerarsi con un colpo imprevisto!
A meditare con il training autogeno fu Arthur Ashe, durante la finale di Wimbledon del 1975: si coprì la testa con un asciugamano e cominciò a rilassarsi con tecniche ben precise. Un gesto che lo aiutò a riprendere la giusta concentrazione, mentre il suo avversario Jimmy Connors, detentore del titolo e atleta particolarmente rissoso e agitato, ne subì le conseguenze. Ashe, nonostante avesse dominato i primi due set (6-1 6-1) e perso il terzo per 5-7, stava rischiando di deragliare fuori dal match. Grazie ai consigli del suo coach, quell’esercizio mentale lo riportò in partita e gli permise di trionfare al quarto set per 6-4, sollevando così la prestigiosa coppa di Wimbledon.
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