
Ci sono diversi elementi utili per noi nella storia di Joy Neville, la 34enne bionda irlandese che arbitrerà Petrarca-Lazio, gara del campionato italiano (maschile) di rugby. Dopo l’esordio di una donna arbitro nel calcio che conta (la tedesca Bibiana Steinhaus in Hertha Berlino-Werder Brema), c’è una storica prima volta anche nel rugby. Sabato 23 settembre, al Memo Geremia di Padova, la Neville dirigerà una partita della massima serie italiana della palla ovale, l’Eccellenza.
L’irlandese – che da giocatrice è stata capitana della Nazionale del suo Paese – un mese fa era in campo a Belfast per dirigere la finale di coppa del Mondo tra le Black Ferns e le ragazze dell’Inghilterra. Massimi livelli, dunque. Ma per arrivare a conquistarsi un ruolo di prestigio nel panorama degli arbitri di rugby, la Neville ha dovuto lavorare parecchio sulle proprie credenze mentali, soprattutto per sconfiggere i pregiudizi e i luoghi comuni che circondano uno sport tipicamente maschile.
In un’intervista ha raccontato di aver giocato 70 partite con la Nazionale di rugby in undici anni. “Nel 2013 – ha detto la Neville – abbiamo ottenuto il Grand Slam: lì ho capito che era tempo di ritirarsi, mi ci voleva troppo tempo per recuperare dai colpi e dai contatti in campo. Mi piaceva sempre meno allenarmi: era un impegno troppo grande. Era il momento di stare di più con la mia famiglia”.
Per gli arbitri, così come per gli atleti professionisti in generale, il tema dell’integrità fisica e quello del ritiro dalla carriera agonistica, sono argomenti di grande tormento interiore. Che fare (pensate a Totti) quando il proprio corpo non riesce più a recuperare in tempi brevi, nonostante la mente sia lucidissima e la passione ancora quella di un ragazzino? Smetto o non smetto? In questi casi, un bravo mental coach sportivo sa affiancare in modo efficace un campione sul viale del tramonto. Ci sono immagini e motivazioni che vanno edificate e fatte crescere nel tempo, anche perché i cambiamenti improvvisi spaventano e non sono mai bene accetti.
Tornando alla nostra arbitra di rugby, lei stessa ha spiegato che – smessa la carriera di giocatrice – non aveva alcuna intenzione di mettersi a dirigere partite, continuando così a essere impegnata nei fine settimana. Ma dalla federazione irlandese hanno continuato a insistere. E a quel punto la Neville ha fatto una telefonata che si è rivelata decisiva. “Ho chiamato un allenatore molto, molto importante in Irlanda, di cui non farò il nome – ha spiegato – e gli ho chiesto se secondo lui era possibile che una donna arrivasse a dirigere una partita della Division 1A, il più alto livello del campionato irlandese. Mi rispose che certo non sarebbe successo finché era in vita lui…”. È bastata quella frase a farle cambiare idea: “Ho deciso che lo avrei fatto!”. Ci è riuscita a novembre scorso, quando ha arbitrato il match tra Cork Con e Clontarf, squadra di Dublino.
Che caratterino, insomma! Ma soprattutto che lavoro sulle credenze limitanti, quelle generiche che tutti pensano ma nessuno verifica sul campo. Lei lo ha fatto, lavorando sulla propria identità e facendo leva sul senso di sfida, un valore che l’ha accompagnata nel suo intero percorso agonistico.
Molti tecnici, compresi alcuni mental coach, in certi casi ottengono risultati “punzecchiando” i propri atleti per incitarli a una reazione. C’è chi reagisce con energia alla leva del dolore, e riscatta prestazioni negative anche solo “per fargliela vedere a quello lì, tutti vedranno chi sono e quanto valgo!”. Va detto però che non sempre, e non con tutti funziona: alcune volte i giocatori non vanno cazziati troppo, perché non sarebbero in grado di ritirarsi su da soli. Meglio in quel caso un trattamento più morbido, che faccia però leva sul piacere positivo di raggiungere un certo risultato.
Nel caso, per concludere, della Neville, è stata proprio quella frase detta a bruciapelo che l’ha convinta a buttarsi a capofitto nella carriera di arbitro, con i risultati eccellenti che ora vediamo. Per un arbitro, poi, saper gestire le reazioni emotive (in special modo degli altri) e capire quando e come prendere una decisione, sono due caratteristiche che fanno la differenza. Empatia e risolutezza rendono il direttore di gara autorevole. E se sabato qualche rugbista protesterà con l’arbitro, si troverà davanti non solo una “giacchetta nera”, ma una signora di un metro e settantacinque che non fa complimenti. E che mentalmente è pronta a qualsiasi sfida!