
Non ci sono alibi: un bronzo e tre quarti posti rendono il bilancio dell’Italia ai mondiali di sci di St. Moritz decisamente misero. Il flop, anche secondo osservatori e addetti ai lavori, deriva principalmente da tre elementi: squadra troppo ”anziana” (età media 30 anni e 3 mesi) con pochi ricambi, mancanza di programmazione nel lungo periodo e incapacità di gestire gli stati d’animo degli atleti prima degli eventi importanti. Ce n’è abbastanza per chiedere lumi a Lorenzo Marconi, sport mental coach e amministratore di ISMCI, il primo istituto internazionale per la formazione mentale di coach sportivi.
Domenica si sono chiusi i mondiali di sci di St. Moritz: l’Italia si consola con una sola medaglia di bronzo. Che Mondiali hai visto e che idea ti sei fatto?
Le aspettative erano decisamente migliori, soprattutto tra le donne. E con le aspettative, aumenta la pressione psicologica. Osservando gli atteggiamenti in gara e leggendo commenti e interviste ho avuto l’impressione che la preparazione dal punto di vista mentale sia stata trascurata e non abbia avuto l’importanza che meritava. Credo che tra gli allenatori ci sia ancora la convinzione che per avere un mental coach bisogna essere malati, e forse lo pensano anche tanti atleti. Mentre per l’attrezzatura c’è una cura giustamente maniacale – penso ai parastinchi in carbonio – non ci si rende conto che poi al cancelletto di partenza arrivano ragazzi e ragazze con la faccia da “pannolone”.
Eppure dovrebbero essere preparati contro la tensione da gara?
In parte sì, questi sono atleti che non conoscono la paura e gestiscono rischi di caduta oltre i cento chilometri orari. Il punto è che faticano a controllare quegli stati d’animo depotenzianti, che ne condizionano di fatto le prestazioni. Prendi Sofia Goggia: 24 anni, un talento incredibile che all’appuntamento dei mondiali – dopo aver raggiunto il podio nove volte in questa stagione di coppa del mondo – viene sconfitta in super G e arriva in conferenza stampa dichiarando candidamente che non ha saputo gestire la pressione! E dopo lo slalom della combinata? Ha detto di non essersi scaldata abbastanza… Ma come? Sei lì per la gara della vita, magari è l’ultima occasione della tua carriera, e non ti prepari a gestire mentalmente ciò che proverai? Non ci potevo credere! Gli skiman passano la notte precedente a preparare gli sci, provando e riprovando gli attrezzi più idonei e gli atleti non si dedicano ad un riscaldamento adeguato; per quale motivo? Mancanza di focus, di concentrazione? Io dico che è mancanza di atteggiamento vincente: il campione vero non deve lasciare nulla al caso, DEVE avere una cura maniacale di tutti i dettagli, che solo una presenza nel qui ed ora può garantirti. In questi appuntamenti non basta esserci con la testa, bisogna esserci con una testa da vincenti. Per vincere, infatti, la tecnica e l’attrezzo non bastano. I risultati della nostra squadra azzurra lo dimostrano.
Perché in Italia gli atleti non hanno al loro fianco un mental coach come fanno altri campioni titolati?
Lavorare con un mental coach non è purtroppo un’abitudine consolidata, come prepararsi atleticamente. In Italia manca la cultura soprattutto tra i tecnici. Molti hanno anche problemi di comunicazione e non affiancano un mental coach perché non hanno l’umiltà di capirne l’efficacia: banalmente lo rifiutano perché pensano sia inutile. Bisognerebbe creare un avvicinamento propedeutico al tema, una sorta di avviamento al coaching come si fa avviamento all’agonismo.
Perché tra gli atleti azzurri è mancata la cattiveria, la fame di vittoria? E come si attiva questo atteggiamento?
Ci sono atleti che la fame di vittoria ce l’hanno nel DNA, altri la coltivano. Prendi Marcel Hirscher, già oggi probabilmente il più grande sciatore di tutti i tempi, due medaglie d’oro e un argento a un soffio dall’oro. Un talento certamente, ma con tanto lavoro da parte del team, un campione mai sazio, affamato di vittorie conquistate anche grazie al lavoro mentale che ha intrapreso da molto tempo. Si avvale di un team privato che non lascia nulla al caso: le vittorie si inseguono, non arrivano con le renne di Babbo Natale!
Come si colgono i segnali di cedimento emotivo nei giorni prima della gara?
Bisogna conoscere il proprio atleta, seguirlo nei grandi appuntamenti che contano. Il lavoro del mental coach parte da lontano: il rapporto con un atleta non si costruisce in pochi giorni. L’atteggiamento mentale vincente va allenato, esattamente come se si andasse in palestra a fare pesi. Non è questione di cedimento emotivo, è questione di gestione degli stati d’animo, dei pensieri che affollano la mente dell’atleta, e non sempre sono positivi. I nostri pensieri si traducono in stati d’animo e in azioni: se sei teso e contratto, il tuo gesto tecnico non sarà fluido e scatta l’errore. E non è l’appuntamento iridato il tema, ma come l’atleta vive il momento, con quali pensieri e stati d’animo si presenta alla gara. Se sei pronto fisicamente e tecnicamente, ma non sei a posto dal punto di vista emozionale, è come avere 1.000 cavalli di potenza da scaricare a terra, ma avere le gomme sgonfie.
Quanto conta avere un mental coach?
Parliamoci chiaro, è l’atleta che vince, e non vince grazie al mental coach. Però magari perde perché non ce l’ha… Il mental coach è uno strumento di supporto fondamentale, come il massaggiatore per il ciclista professionista, come il navigatore nei rally. Purtroppo o per fortuna però, solo gli atleti che hanno un mental coach ne capiscono l’importanza. E magari vincono gare su gare, come Hirscher!