
Per molti campioni dello sport, la chiusura di carriera è uno dei momenti più critici da attraversare. C’è chi riesce a farlo all’apice del successo (è il caso di Flavia Pennetta, campionessa di tennis, ritiratasi dai campi da gioco dopo aver vinto gli US Open nel 2015), chi lo fa quando è ancora in discreta forma nonostante l’età (pensiamo a Luca Toni, attaccante del Verona e campione del mondo nel 2006) e chi invece proprio non riesce a farlo (facile il riferimento a Francesco Totti e al tormentone sul rinnovo del contratto per un altro anno).
Interrompere l’attività agonistica non è solo una questione fisica. È soprattutto una difficoltà a livello mentale, un tema di autoimmagine. Quando si smette di giocare a certi ritmi, si tende ad esempio a ingrassare non solo perché si interrompono gli allenamenti quotidiani. Si ingrassa perché ci si deprime, e ci si deprime perché viene meno l’affetto del pubblico, quel corto circuito di motivazione necessario a dare benzina alle nostre giornate.
Smettere di fare sport infatti non è esattamente come andare in pensione dopo una vita passata in ufficio o dietro al bancone di un negozio. La vita quotidiana di un campione è scandita dal grande contrasto fra il dietro le quinte (gli allenamenti invisibili, duri e faticosi) e la ribalta di fronte a telecamere e tifosi.
Esistono almeno due peak state, due picchi emozionali di massimo rendimento a cui ci si abitua negli anni e che definiscono la nostra limitata area di comfort. Uno è quello del gesto sportivo vincente, del gol realizzato, del match point che chiude l’incontro. Segnare una rete di fronte a migliaia di persone che esultano è un’esperienza così inebriante da tracciare un vero e proprio solco nell’archivio della nostra emotività. Poi c’è il peak state “reattivo”, quello che raggiungiamo da soli negli allenamenti, grazie all’aiuto di un mental coach o a tecniche di concentrazione per imprimere fisiologia. Quella sferzata di energia che ribalta in pochi secondi uno stato di apatia e demotivazione in una scarica di adrenalina positiva.
A questi alti e bassi ci si abitua nel tempo, diventano una compagna di vita. Ecco perché il “piattume” di una vita senza scosse può fare paura a un campione come Totti, talmente al centro della centrifuga mediatica e di pubblico da non riuscire a fare una semplice passeggiata per le strade di Roma. Brava è stata la Pennetta a decidere di smettere proprio dopo aver raggiunto il massimo traguardo della carriera: “Stava diventando difficile per me competere – ha spiegato in un’intervista – Quando sei sul campo, quando devi giocare per 24 settimane all’anno, devi riuscire a combattere ogni settimana. E se non lo fai sempre con lo stesso impegno, le cose possono andare male. È stata una decisione veramente difficile, ma sono contenta di averla presa”.
Sentite cos’ha detto Luca Toni: “Dopo un po’ di riflessioni, dopo tanti anni di calcio, ho pensato che è arrivato il momento di lasciare. Sono state settimane difficili, una decisione sofferta. Saranno giornate con un misto tra gioia e tristezza”. Importante dunque la presenza di un mental coach che favorisca il percorso di abbandono dall’attività agonistica. In attesa dell’addio alle scene, un campione deve iniziare a costruire in parallelo la sua nuova quotidianità, fatta di peak state meno intensi ma non per questo di minore efficacia emotiva. Molti calciatori, ad esempio, hanno abbracciato la carriera di opinionisti sportivi, rimanendo comunque di fronte a una telecamera e garantendosi così un riconoscimento costante da parte del pubblico. È un modo intelligente di “lasciare senza lasciare”. In molti casi, alcuni sportivi che in campo risultavano antipatici soprattutto a certe tifoserie, diventati personaggi televisivi fanno emergere un lato umano, conquistando simpatie e popolarità.
A quando dunque la Pennetta a commentare gli Internazionali di Tennis?