
“E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori tristi che non hanno vinto mai ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro al bar…” canta Francesco De Gregori in una delle sue canzoni più belle: La leva calcistica della classe ‘68. Già, ne abbiamo visti tanti, e tra quei campioni che hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro ci sono soprattutto coloro che da ragazzi sono stati colpiti da una vera e propria iattura: gli è stato detto che avevano “talento”.
Ecco un mito letale: quello del talento. Così come esistono sfortuna e fortuna, è innegabile che esistano genetica e capacità innate, ma anche questo è un pensiero deleterio perché invece di rappresentare una spinta a crescere conduce all’immobilismo e all’apatia (“tanto ho talento, inutile che mi dia da fare”). La convinzione che il giorno in cui sei nato qualcuno abbia buttato i dadi e scelto per te piedi da falegname o da fata può fare danni irreparabili. In entrambi i casi, infatti, la conseguenza è di essere portato a pensare che allenarsi non serva: nel primo caso perché tanto sei scarso e il tuo destino è segnato; nel secondo perché non ne hai bisogno, sei troppo forte.
Un aneddoto la dice lunga sull’argomento. Quando nel 2014 passò al Real Madrid, il centrocampista colombiano James Rodriguez si presentò al suo primo allenamento con due ore di anticipo per fare bella figura. Arrivato negli spogliatoi, chi incontrò? Cristiano Ronaldo. Sudato fradicio, CR7 era già lì da un’ora e aveva appena concluso una sessione di pesi.
E’ comodo pensare che i successi dei campioni dipendano da un dono della natura, è un pensiero che dispensa dal sacrificio e dalla dedizione, ma alla lunga il suo effetto è negativo perché porta dritto dritto alla passività e alla rassegnazione (e in ultima analisi al bar di De Gregori a bere prosecchi e leggere la Gazzetta dello Sport e maledirsi per aver trascorso la propria gioventù a battere la fiacca e compiacersi dei propri colpi di tacco).
Evitiamo il più possibile di parlare di talento; è un concetto che fa danni sia a chi ne è dotato sia a chi ne è privo. Parliamo di sogni, di obiettivi e di strategie per raggiungerli. Con gli sportivi utilizziamo gli strumenti del mental coaching; non nascondiamoci dietro a espressioni e concetti “preconfezionati”.