
Va visto. Il film “Il Campione” va visto insieme ai figli e ai genitori. Va visto perché non è un film scontato. Soprattutto va visto perché è utile che qualcuno ogni tanto ti racconti come stanno veramente le cose, specie se hai scelto un percorso da professionista nello sport. Decisione impegnativa, faticosa ed esaltante. E ricca di insidie.
Non è un mistero ammettere di essere circondati da giovani talenti, poco più che adolescenti, che dopo essere approdati nello star-system del calcio (e di altri sport di livello mediatico) ne escono quasi subito con le ossa rotte. I giornali, i media, le televisioni difficilmente raccontano le numerose storie di ragazzi che si bruciano nel tentativo di restare a galla nel mondo del pallone. Non sempre si capisce dall’esterno quanto certi ambienti diventino tritacarne di esseri umani: contesti che regalano gioie immense e soddisfazioni economiche, ma che possono distruggere per sempre la fragile personalità di qualcuno in procinto di affacciarsi alla vita.
Quella dell’incontro tra Christian Ferro – giovanissimo attaccante della squadra giallorossa, rockstar del pallone, concentrato esplosivo di talento e sregolatezza – e il professore chiamato a sedarne gli eccessi, Valerio Fioretti, è una storia di solitudini che cercano di aiutarsi e crescere a vicenda. “Il campione” è un film su un campione giovane e squilibrato (che per atteggiamenti ricorda Cassano o Balotelli), fortissimo e incontrollabile. Che la società sportiva decide di punire tenendolo un po’ fuori rosa e di provare a raddrizzare con un tutore, un professore che lo costringa a studiare. E, si spera, a infondergli in questo modo il senso della disciplina.
Christian a soli 20 anni è già la prima punta della Roma, venerato come una rockstar dai compagni e dalla città intera. Proiettato in una vita di lusso sfrenato, in realtà è un ragazzo solitario, schivo e pieno di rabbia, che non ha mai superato la morte della madre. Le sue intemperanze, dentro e fuori dal campo, potrebbero costargli la carriera. Così il presidente decide di porgli un ultimatum: finché non supera gli esami di maturità, il campione resta in panchina.
“Tutti a scuola abbiamo avuto un professore così, che ha saputo insegnarci qualcosa e ci ha aperto una porta” ha spiegato in un’intervista Stefano Accorsi, il protagonista professore. “Nel film parliamo dell’importanza che si dà all’idea di successo: a volte è proprio il modo in cui ci si racconta come persone di successo che va a condizionare il nostro vivere quotidiano, più che mai in epoca di social network fuori controllo. Purtroppo molti esempi nel mondo dello sport, e non solo, ci insegnano che è proprio così. Del resto, cosa può succedere a un ragazzo di 18 anni che si trova all’improvviso al livello di una rockstar…?“.
Lo sport è l’occasione per raccontare altro. L’idea è che in certi momenti la posta in gioco possa essere altrettanto cruciale quanto sul campo di calcio. Momenti in cui puoi solo vincere o perdere. Per prepararsi, Andrea Carpenzano (l’altro protagonista insieme ad Accorsi) ha fatto molta palestra. In testa ha un codino alla Ibrahimovic. “Il film ha cambiato il mio modo di pensare ai calciatori – ha spiegato in conferenza stampa – Ho provato a immaginare come possano essere le loro vite“. Per esempio, come possa sentirsi un ragazzo di fronte a un suo maxi murale sulla parete di un palazzo del Trullo, periferia sud-ovest di Roma, dove troneggia la faccia di Christian/Andrea.
Lo scopo, per il regista Leonardo D’Agostini, non era realizzare un film di calcio, ma un film sul calcio come industria d’intrattenimento. Una macchina che può fagocitare e distruggere un ragazzo privo di punti di riferimento. “Valerio è una bella figura di professore – dice ancora Accorsi – uno di quelli che ci si ricorda per tutta la vita e non sono molti. È un uomo che fa il suo mestiere con passione, e che non sa solo cosa, ma soprattutto come insegnare ai propri allievi“. Una sorta di mental coach, potremmo dire rimanendo in contesto.
La pellicola ha avuto una partnership con l’AS Roma, che ha supportato la promozione, e il giudizio positivo di uno che di calcio se ne intende come Francesco Totti. “Ha visto il film in anteprima e alla fine del film, dopo alcuni secondi che per noi sono stati di terrificante silenzio, ci ha detto ‘È proprio così che funziona’“, ha raccontato Giulia Steigerwalt, una delle due sceneggiatrici insieme ad Antonella Lattanzi.
Sarebbe sbagliato però immaginare che “Il Campione” sia un film solo per appassionati di calcio, o per un pubblico maschile: “Ci siamo accorti che piace molto anche alle donne, che è trasversale anche per quanto riguarda le età degli spettatori, perché la storia che raccontiamo è universale, quella di un affetto tra un ragazzo e il suo maestro, impegnato a spiegargli come gestire il talento” ha detto la Lattanzi. “La sicurezza di sé che viene dall’esterno è solo apparente – ha concluso la Steigerwalt – La vera sicurezza la raggiungiamo solo quando si ha consapevolezza di noi stessi e le scelte che facciamo sono davvero indipendenti. Incontrare qualcuno che ci metta di fronte alla necessità di essere noi stessi è fondamentale. Ed è questa la nostra storia“.
Abbiamo voluto recensire questo film perché la storia si presta all’analogia con la professione di Sport Mental Coach ed al rapporto con gli atleti. Il ruolo del coach è quello di guidare, di supportare, di stimolare creando benessere e consapevolezza di sé affinché ognuno possa dare il massimo del proprio potenziale. Il successo di un atleta non è solo la vittoria ma è la certezza di aver dato il meglio di sé, nella piena ecologia.