Darwin Pastorin, giornalista sportivo, scrittore di romanzi e saggi sul calcio, nel suo libro “Lettera a un giovane calciatore” fa una lista dei suoi portieri preferiti, nella quale inserisce Gigi Buffon, Dino Zoff, Lev Jašin e René Higuita.
Soprannominato “Ragno nero” per via dell’uniforme scura, il russo Jašin, scomparso nel 1990, è stato l’unico portiere ad aver vinto, meritatamente, nel 1963, il Pallone d’Oro. Il colombiano René Higuita è invece considerato il più folle e stravagante estremo difensore della storia del calcio. Oltre che per il carcere, la cocaina e i rapporti con Escobar, la sua fama è legata al celebre “colpo dello scorpione”, effettuato durante la partita amichevole Inghilterra-Colombia nel 1995.
Gianluigi Buffon, passato dalla Juventus al Paris Saint-Germain, tempo fa ha detto che “in campo il portiere è pronto a sacrificarsi per la causa ed è una persona onesta nella vita e nelle amicizie”. Dino Zoff, campione del mondo in Spagna, a quarantun anni volava ancora come un angelo.
Un ruolo dunque, quello del portiere, molto difficile da definire. Nel quale la componente razionale deve andare d’accordo con la parte più esplosiva e istintiva dell’atleta. Il portiere in campo è la metafora di un baluardo, l’ultimo uomo a difendere il fortino. È lui a dover trasmettere sicurezza ai compagni di squadra, nonostante l’isolamento (è relegato nella sua area) e l’assenza per lunghi tratti dal gioco.
Di questo abbiamo parlato con Andrea Piscitelli, giovane mental coach della scuderia di Sport Power Mind. Andrea – che da professionista segue (oltre ad altri atleti) due portieri di calcio – ha un passato da istruttore di 2° grado della Federazione Italiana Tennis. “Allenare la mente dei portieri è un’esperienza davvero particolare – spiega Piscitelli – perché si tratta di giocatori che non possono sbagliare mai. Un loro errore non vale come quello di un compagno: se fai una papera, anche banale, regali un gol agli avversari e una delusione fortissima alla tua squadra, all’allenatore, a tutti i tifosi. Basta pensare a cos’è successo a Donnarumma durante questa stagione…”.
Chiedo ad Andrea di raccontarci qualcosa della sua attività di mental coach con i ‘numeri uno’. “Come dicevo, il portiere fa reparto a sé, deve badare a se stesso. Per intere porzioni di gioco è da solo con i suoi pensieri e gli stati d’animo, obbligato a mantenere una concentrazione elevata sebbene poco coinvolto. Pensiamo a portieri di grandi squadre, che magari in certe gare toccano il pallone solo tre o quattro volte in novanta minuti. Lì il rischio forte è quello di raffreddarsi, sia fisicamente che sotto l’aspetto mentale. E se la fisiologia si blocca, nello stretto rapporto mente-corpo anche il cervello si può deconcentrare, a volte in maniera fatale”.
Piscitelli lavora con due portieri di età molto diversa. Il primo è un ragazzo di quattordici anni, che gioca al Nord Italia in una squadra giovanile di calcio a 11. Il secondo invece ha il doppio degli anni, oggi milita in formazioni di calcio a 5 e a 7, e vorrebbe cimentarsi a livello internazionale nelle KeeperBattle, una sorta di battaglia dei portieri che si sfidano calciando a turno, su campi in erba o sulla sabbia dei litorali.
“Con l’atleta giovane – spiega Andrea – sto lavorando per aumentare le risorse legate alla sicurezza e alla fiducia in se stessi. Il suo dialogo interno era fortemente limitante: spesso dopo un errore o un rimprovero dell’allenatore, il ragazzo si diceva mentalmente di non essere capace, di non sentirsi all’altezza. Di fatto, non credeva nei propri mezzi, che invece sono di buona qualità. Purtroppo se il portiere entra in tensione, se va sotto stress per paura di sbagliare o per un errore commesso, tutta la squadra si sentirà vulnerabile”.
Il mental coach in questi casi lavora per far sì che l’atleta resti lucido e concentrato nei momenti topici della gara: per un portiere pensiamo alle azioni offensive degli avversari, ai calci piazzati (corner, punizioni e soprattutto rigori), alle uscite sulle palle alte e su quelle basse in mezzo ai piedi degli avversari. Di recente, anche al cosiddetto ‘gioco con i piedi’, a quando il portiere riceve palla dai propri difensori e deve rigiocarla evitando il pressing degli attaccanti rivali.
Aggiunge Piscitelli: “Per loro una delle tecniche più importanti da acquisire è quella che ti consente di entrare velocemente nello stato d’animo giusto. È questione di secondi: l’emozione potenziante va individuata e richiamata in pochissimi istanti. Se il portiere diventa abile a entrare in quello stato produttivo, se adotta la fisiologia corretta, allora potrà dare il massimo nelle azioni più ‘calde’ della partita. Non serve che lui stia al massimo dell’energia per novanta minuti: deve essere nel suo peak state in quei pochi istanti decisivi”.
Entrambi i portieri seguiti da Andrea hanno approcciato il lavoro di coaching nel modo giusto e più efficace. Si sono messi in gioco seguendo tutte le indicazioni, senza fare quelle resistenze che allungano il processo e diradano i risultati. “È proprio così: i miei atleti prima hanno seguito online il programma di Sport Power Mind e poi hanno deciso di continuare con un lavoro di personal coaching. Partiti con il problema della fiducia in se stessi, che spesso è un tema di identità limitante, hanno iniziato a lavorare con l’atteggiamento giusto, a fare i compiti a casa, visualizzando gli stati d’animo e immaginando le situazioni stressanti della partita. In questo modo ora possono accedere alle risorse produttive e allontanare interferenze e distrazioni. In due-tre mesi abbiamo fatto passi da gigante: i pensieri sono passati da ‘oddio ho paura di sbagliare’ a ‘se sbaglio, pazienza, rimedierò!’. E soprattutto ad assumersi la responsabilità dei propri risultati”.
Molto importante il supporto della famiglia (“genitori fantastici, presenti ma non invadenti”) e il cambio di focus mentale. “Specialmente l’atleta più giovane era condizionato dai feedback dell’allenatore: li viveva male, stentava a riprendersi. Saper comunicare bene con gli adolescenti è decisivo perché il mister ha un forte ascendente su un quattordicenne, viene percepito come una sorta di padre. È normale che un ragazzo non abbia ancora la maturità per giudicare le critiche, il suo pendolo emotivo è molto ampio. Per questo ci vuole un giusto mix di decisione e delicatezza”.
Ora i due portieri non si buttano giù al primo errore, come facevano tre o quattro mesi fa. Anche se la loro squadra vive una giornata negativa, restano fiduciosi nei propri mezzi e nelle loro capacità. “A volte – conclude Andrea – gli atleti hanno dei modelli di riferimento in base a un range di caratteristiche mentali e caratteriali. C’è chi sceglie Ibrahimovic e Gattuso per la grinta, chi LeBron James per la leadership o Federer per la centratura e l’equilibrio. Cristiano Ronaldo per l’applicazione e il sacrificio. I due portieri non avevano in testa un campione specifico, ma un mix di come doveva essere il portiere ideale con certe qualità. Quella loro personale immagine interna era di un campione con certi movimenti, con certe espressioni, dialoghi, atteggiamenti, modi di respirare. Questa cosa un po’ ha sorpreso anche me, che già mi aspettavo modelli come Buffon, Donnarumma, Szczesny o Handanovic. Invece ispirarsi a un proprio campione ideale può essere un’immagine ancora più completa”.