Luciano Spalletti ha definito “depresso” e “a un passo dalla follia” l’ambiente che gravita intorno all’Inter. Una squadra che cammina sempre sul filo dell’equilibrio. Roberto Re, che da mental coach lavora spesso con calciatori, allenatori e campioni dello sport, quando parla di Inter spesso fa un richiamo alla credenza legata all’identità, che ama definire la squadra nerazzurra come “pazza”.
Un riferimento forte a queste due affermazioni si ritrova in un testo, che non è un coro da stadio inventato da tifosi delusi e arrabbiati, ma trattasi dell’inno vero e proprio, ufficialmente adottato dal club come una sorta di manifesto con cui dichiararsi al mondo.
“Nerazzurri
pazzi come te
Nerazzurri
non fateci soffrire
Ma va bene… vinceremo insieme!
Amala!
Pazza Inter amala!”
Immaginiamo per un attimo il pensiero di un giovane neo-acquisto dell’Inter. Per conoscere meglio l’ambiente in cui sei precipitato, che fai? Leggi i giornali, parli con colleghi calciatori che giocano o hanno giocato in quel club, cerchi di percepire le dinamiche interne allo spogliatoio, le gerarchie, i gruppi, le affinità. Contemporaneamente inizi a prendere contatto non solo con i dirigenti, i compagni, i tifosi. Ma anche (almeno si spera, minimamente) con la storia societaria, con i valori che contraddistinguono la società e che la rendono gloriosa agli occhi di milioni di simpatizzanti in tutto il mondo.
E giustamente il giovane – non appena sentirà cantare il coro, il ritornello che richiama le parole del suo inno – penserà a una squadra “pazza”, di fatto volubile, fragile, esposta alle intemperie, all’ambiente, alla… follia. Per entrare dunque nel “mood” di questo nuovo clima – al netto dei giocatori super-tatuati e super instagrammati che troviamo in tutte, quasi tutte, le squadre – è un attimo che anche il “povero” (tra mille virgolette) neo-acquisto pensi di essere finito in un posto dove è comunque legittimo portare a casa risultati altalenanti, avere atteggiamenti estremi di grande impegno e grande indolenza insieme, di tifosi che soffrono ma che alla fine amano lo stesso la loro squadra e le perdonano tutto.
È un ragionamento, questo, tirato un po’ alle estreme conseguenze, tanto per fissare alcuni punti. Tanto per capire il biglietto da visita, l’antipasto che viene fatto assaggiare a chiunque varchi la soglia della Pinetina di Appiano Gentile (oggi, tanto per aggiungere ingredienti al minestrone Inter, ribattezzato “Centro Suning”, dal nome dei nuovi proprietari cinesi).
L’Inter oggi è un posto dove anche un massiccio team formato dai migliori mental coach mondiali farebbe fatica a lavorare. E non c’entrano le otto partite consecutive senza vittoria, o i cinque pareggi inanellati nelle ultime cinque gare. C’entra il fatto che a dicembre scorso, due mesi fa, dopo una cinquina di gol rifilati al Chievo, in molti già parlavano di squadra-scudetto. Senza alcun equilibrio.
Un’altalena di credenze che Spalletti ben conosce, avendo allenato un paio di stagioni a Roma, sponda giallorossa, un altro ambiente frenetico e oscillante da far girare la testa anche a una statua di granito. Con uno spogliatoio fragile e disunito, storicamente suddiviso in clan (sudamericani, croati, italiani, europei, ecc). E con i fantasmi del passato che riaffiorano a ogni refolo di vento, il pubblico di San Siro – sebbene più clemente e comprensivo che in passato – è capace di rovesciarti addosso una montagna di fischi che ti penetrano nelle ossa (immaginate una montagna alta cinquanta metri, fatta di persone che fischiano e urlano al tuo indirizzo).
Che dovrebbe/potrebbe fare un mister di fronte a questa piramide di situazioni e credenze negative? Probabilmente assumere una schiera di mental coach che lavorino “acca ventiquattro” al servizio degli atleti! Al di là della battuta (in parte seria), un tecnico in questi casi – insieme a tutte le strategie calcistiche, alle tattiche e alle diavolerie di gioco – non può ignorare l’aspetto mentale, che mai come in questo caso è da ricostruire su più livelli.
Di certo, insieme ai movimenti provati in allenamento, i calciatori devono poter agire sulla loro fisiologia per ovviare ai cali di tensione che inevitabilmente arrivano nelle fasi cruciali della gara. Insieme al focus da mantenere saldo verso l’obiettivo stabilito insieme negli spogliatoi (ogni mister ne presenta svariati, ma poi dovrebbe far concentrare i suoi ragazzi su 2-3 “must” imprescindibili), c’è tutto un lavoro sul dialogo interno, che è quello in grado di incidere veramente nella testa degli atleti. E che spesso li fa scivolare in una spirale di metafore negative e incantesimi da cui è difficile riemergere.
Credendo nella potenziale capacità di invertire una fase critica della partita, l’allenatore dovrà puntare sul rendere i giocatori consapevoli che il ciclo del successo è innestabile, che piccole azioni positive producono da subito risultati positivi (rovesciamenti di fronte, controllo della gara, un gol che riapre tutto). E che dunque le credenze con cui raddrizzare la sfida, i binari giusti lungo i quali ricominciare a correre senza pesi mentali, sono solidi come un volano che aiuta a ripartire. L’auto-immagine sarà nuova, finalmente ripulita dalle credenze di “squadra pazza”. Inter insomma che, grazie a un percorso di crescita, smetterà di adagiarsi sull’idea che tanto in ogni caso, alla fine, c’è sempre qualcuno che ti ama e ti perdona qualunque follia.