
Come abbiamo scritto nella prima parte di questo articolo, insieme a Lorenzo Marconi (performance coach di ISMCI) abbiamo commentato alcune storie che nel 2018 hanno riscosso maggiore successo sulle pagine social targate SPM.
Se nella prima parte hai letto le vicende di:
- Francesco Molinari (golf)
- Walter Zenga (calcio)
- Carolina Kostner (pattinaggio)
- Marco Cecchinato (tennis)
Ora è la volta di:
- Max Allegri (calcio)
- Sofia Goggia (sci)
- Romano Fenati (motociclismo)
- Gonzalo Higuain (calcio)
Massimiliano Allegri
Nel momento più critico della scorsa stagione (Juve fuori dalla Champions League per opera del Real Madrid, con un rigore dubbio fischiato all’ultimo minuto, e Juve con un vantaggio rosicchiato dal Napoli in campionato, che battendo i bianconeri allo Stadium era arrivato a un solo punto dalla capolista) Massimiliano Allegri si è trovato a dover indossare i panni più da mental coach che da allenatore vero e proprio.
Un leader all’interno di un gruppo deve sfoderare una capacità di accoglienza dei bisogni, che in questo caso si sovrappongono a più livelli. Ci sono i bisogni legati al raggiungimento dell’obiettivo (che era contenere la risalita del Napoli e vincere lo Scudetto). Ci sono i bisogni della squadra, quelli collettivi, che riguardano le dinamiche interne e le gerarchie utili a tenere la squadra motivata. Ci sono poi i bisogni dei singoli atleti (Dybala, Buffon e altri) dove il mister-coach deve fare veramente lo psicologo con sessioni individuali, durante le quali riportare il dialogo a un livello costruttivo, al netto di egoismi personali e credenze negative.
Il tecnico dovrà così lavorare per tenere sotto controllo il cosiddetto “Inner Game”, la realtà interiore vissuta nella mente del giocatore, non percettibile all’esterno in quanto solo lui la conosce. Dovrà verificare se i singoli sono focalizzati sulla prossima gara, avendo ripulito le scorie delle sconfitte passate. Dovrà aiutarli a mantenere un dialogo interno produttivo, con la mente che eviti il più possibile di farsi domande “perdenti” e depotenzianti. Dovrà insomma mantenere i suoi ragazzi “In the Flow” come si dice nel gergo dei coach: ovvero al massimo delle loro potenzialità, concentrati e focalizzati. In ultimo, nel privato dello spogliatoio e nelle chiacchiere sul campo di allenamento, Allegri dovrà smontare probabili credenze negative, che hanno pervaso la tranquillità mentale come le erbacce quando infestano un giardino.
Sofia Goggia
“A poche ore dall’inizio del 2018 mi sono detta: Sofia, punta solo alle cose essenziali. A gennaio devi essere un cecchino!”. Detto, fatto. Con il terzo posto nel gigante di Kranjska Gora, Sofia Goggia ha iniziato nel migliore dei modi il percorso di avvicinamento ai Giochi Olimpici in Corea del Sud. Sofia è tornata competitiva facendo appello a elementi tipici del mental coaching: fisiologia, focus mentale e dialogo interno. Quando un atleta è alle prese con incantesimi negativi, un mental coach preparato è in grado di aiutarlo a sciogliere le resistenze per lasciare libere le potenzialità agonistiche.
Anche il corretto focus mentale le ha permesso di essere in gara con la concentrazione di un cecchino. Sofia ha spiegato di essersi lasciata alle spalle i cattivi pensieri di inizio stagione, come se avesse deciso di indossare nuovamente il mantello di Super-Goggia e non arrendersi all’immagine di se stessa che riceve il carbone nel giorno della Befana. “Un mental coach – commenta Lorenzo Marconi – non sarà mai il sostituto di un allenatore o di un preparatore atletico: al contrario aiuta l’atleta ad ascoltarsi meglio, a gestire in modo efficace emozioni e paure, a rendere allineati mente, corpo e attrezzo, per essere più lucidi nell’applicare la tecnica e le strategie agonistiche. A renderle efficaci, essenziali, vincenti. Spazzando via le tossine mentali che rappresentano un ostacolo”.
Romano Fenati
Dopo le scaramucce in pista con il rivale Stefano Manzi, costate al 22enne pilota marchigiano due giornate di squalifica e il licenziamento da parte della sua scuderia, l’intero circo mediatico si è scagliato contro Fenati, rimproverandogli di aver messo a repentaglio la vita di un collega del motomondiale. “Quello dell’atleta che perde le staffe – spiega Lorenzo Marconi, manager e performance coach di ISMCI – è un tema di grande attualità. Non prendo le difese di Fenati, pessimo il gesto e giusto condannarlo. Discuto invece la gogna e l’abbandono del ragazzo, perché oltre che di un pilota affermato, parliamo pur sempre di un ragazzo di 22 anni. Questi giovani talenti sono perfettamente consapevoli delle capacità tecniche di cui dispongono, ma non sempre possiedono le risorse mentali, l’esperienza e la maturità di atleti adulti e devono sostenere pressioni e difficoltà per le quali non sempre sono attrezzati dal punto di vista mentale”.
Perché dunque molti giovani talenti non vengano adeguatamente seguiti da professionisti del mental coaching? Di norma purtroppo si investe solo in preparazione tecnica e fisica, tralasciando invece la gestione degli stati d’animo e degli stress da gara. “Così facendo – continua Marconi – moltissimi ragazzi, anche giovanissimi, che potrebbero essere formati fin da subito al controllo delle proprie emozioni e all’utilizzo completo delle proprie risorse vincenti, vengono lasciati soli con la propria testa. E quando arriva il momento di follia, invece di gestirlo, l’atleta non sa cosa fare, deve improvvisare e… viene sopraffatto da stati d’animo negativi che generano comportamenti sbagliati”.
Gonzalo Higuain
La vicenda dell’espulsione di Gonzalo Higuain in Milan-Juve è un Bignami di teoria del mental coaching. C’è tutto. C’è l’eroe prigioniero della sua storia. Ci sono gli avversari, tanti, troppi da gestire tutti insieme. Ci sono frustrazioni, fantasmi, torti da rivendicare, rodimenti da guerriero incompreso. Ci sono quelli che lo attaccano, quelli che lo redarguiscono, quelli che lo perdonano, quelli che lo capiscono. C’è pure un campione del mondo come Matuidi che con fare ecumenico lo bacia sul collo al momento dell’uscita dal campo. Un romanzo ricco di passione. Un melodramma.
Lui stesso, insieme alle scuse di fine gara, ha aggiunto rispondendo ai giornalisti: “A volte è difficile gestire le emozioni, stavamo perdendo, avevo sbagliato un rigore, giocavo contro la mia ex squadra. Non è una giustificazione, ma siamo uomini, non siamo dei robot, l’arbitro deve capire il momento. Io me la prendo troppo, ma sono fatto così, è difficile cambiare”.
Lavorare con un mental coach significa riuscire a saltare fuori dalla propria storia, liberandosi di zavorre penalizzanti, per imparare a riscriverla ogni giorno con gli ingredienti giusti. Facendo tesoro di esperienze positive e negative, ma lasciando il fardello di emozioni depotenzianti sullo sfondo, come una cornice da cui prendere spunto. Perché giocare con la sensazione che il blackout sia sempre dietro l’angolo, ti fa perdere lucidità e concentrazione. E soprattutto il sorriso di chi dovrebbe divertirsi e far divertire.