Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, dice di Gattuso: “Durante il corso di Coverciano, era un alunno modello. Continuava a studiare anche dopo le lezioni: insomma, un assatanato di sapere”. Se guardiamo in chiave mental coaching all’ascesa del Gattuso allenatore, scopriremo che “Ringhio” in panchina ha iniziato dalla cosa più importante: ha messo ordine ed equilibrio nel club rossonero, un ambiente dove regnava il caos, l’inquietudine e il non detto. Dove le scelte del mister precedente (Vincenzo Montella) erano tortuose e spesso incomprensibili.
In tre mesi il tecnico ha cambiato volto alla stagione rossonera. I numeri (12 risultati utili di fila) raccontano di una squadra tornata in corsa per un posto Champions. Lui però si schermisce: “Calma, non abbiamo ancora fatto nulla”. In effetti Rino è uno con i piedi per terra. Quando si dice che tra le sue caratteristiche prevalgano la tenacia, la grinta e il cuore (le parole chiave del Gattuso calciatore e campione del mondo) si fa opera di generalizzazione, sottovalutando invece le vere attitudini che lui stesso ha coltivato nella nuova vita da allenatore. Rino ha fatto breccia nello spogliatoio milanista perché è una persona coerente: mette in pratica quello che dice, semplifica i messaggi, ha l’umiltà tipica delle persone consapevoli dei propri limiti. E di questi tempi, non è poco.
Dopodiché, la sua empatia si basa su una leadership diretta, un dirsi tutto nel segreto degli allenamenti: i suoi guerrieri, ne è convinto, devono conoscere i piani del generale, le motivazioni delle scelte, l’opportunità di far giocare uno piuttosto che un altro. Ma Ringhio in verità più che da generale, si comporta da caporale in mezzo ai pari. Come un capitano-allenatore che valorizza i giovani, con un occhio di riguardo per gli atleti italiani provenienti dai vivai (Cutrone e Calabria) e un focus importante su chi fatica a inserirsi (Calhanoglu) o e rimasto indietro di condizione (Bonucci).
Per i lettori di questo blog – specie per chi lavora con atleti, anche non calciatori – è importante notare il lavoro che circonda l’identità della squadra. Tutti – società, tifosi, giornalisti – sono sorpresi dalla velocità con cui Gattuso ha dato una forma, ha motivato una formazione che navigava a metà classifica, senza né arte né parte dopo i bagliori estivi di inizio stagione. Ora invece l’atmosfera è evidente, palpabile: quello ai suoi ordini è un gruppo che ci crede, sono ragazzi che si aiutano. È vero che vincere aiuta a vincere, ma la motivazione e le credenze positive non si improvvisano: al contrario, si coltivano. Giorno dopo giorno.
A nostro avviso Gattuso ha intuito un elemento-chiave, spesso poco assecondato dai tecnici bramosi di vittorie. Ovvero che i ragazzi di vent’anni non desiderano solo fama, sesso e soldi. Nell’era dei social, non vogliono isolarsi nel successo, non cercano a tutti i costi il conto in banca a nove cifre, se questo comporta una perdita di popolarità, di contatto con il pubblico. Vogliono in realtà dare un contributo che resti alle cronache, entrare nella storia del club, essere partecipi di una crescita che da individuale può trasformarsi in collettiva. Secondo una rinnovata visione di gruppo.
I risultati (Gattuso-atleta insegna) arrivano con pazienza e fisiologia del movimento sincronico. Non con minuetti da orchestra della Scala, ma con slanci passionali da oratorio di periferia, dove lo spirito conta più del gesto tecnico. Gattuso non può insegnare l’arte di un pittore rinascimentale. Per lui il calcio è rincorsa mentale, è un dialogo interno che predica la filosofia del “non mollare”. Del non sentirsi mai diverso o inferiore, specialmente se hai portato, insieme ad altri eroi, l’Italia di Lippi sul tetto del mondo.
Sentiremo parlare a lungo di Gattuso allenatore, chissà magari anche fuori dal Milan. Rino è un saggio imprenditore del Sud, che ha aperto ristoranti in Toscana e in Lombardia, ha giocato in Scozia (dove ha conosciuto sua moglie), ha allenato a Palermo (ingegnosità), Pisa (forma anticonvenzionale) e Creta (commerci marittimi). Non ci stupiremmo se qualche suo giocatore salisse in piedi sulla panca dello spogliatoio al grido di “Capitano, mio Capitano”.