“Vuoi diventare il migliore del mondo? Se lo diventi, arriveranno anche i soldi. Ma se insegui solo il denaro, allora non otterrai nulla, capito?”
Prima di parlare dell’identità di Ibrahimovic (essere Ibra è un mestiere a tempo pieno, 24 ore al giorno), partiamo dalla notizia del giorno. Ovvero dal conto alla rovescia per il ritorno del fenomeno svedese alla corte rossonera. Ebbene sì: il “vecchio” Zlatan, 37enne mattatore di memorabili stagioni con la maglia della Juve (due scudetti vinti, poi revocati), dell’Inter (tre consecutivi) e dello stesso Milan (un campionato vinto), potrebbe presto incrociare i tacchetti nientedimeno che con Cristiano Ronaldo e con tutti i campioni della Serie A. Per la gioia di chi segue e ama questo torneo, spesso bistrattato.
Scrive la Gazzetta: “Nella mente dello svedese è ormai tutto molto chiaro: Zlatan vuole il grande ritorno e sta lavorando in questo senso. Una volta sciolti gli ultimi nodi che lo legano ai Galaxy e agli sponsor (grazie ai quali arrotonda lo stipendio di 1,5 milioni ai 4 complessivi), Ibra potrà definire la formula per vestire ancora rossonero: prestito di sei mesi eventualmente rinnovabile o addio definitivo agli americani. La palla, adesso, ce l’ha Leonardo: Zlatan aspetta l’assist vincente”.
Perché Ibra potrebbe dare un valore aggiunto al nostro campionato e non solo al Milan? A nostro avviso perché Zlatan è un esempio di mentalità vincente. A patto di saper separare l’aspetto positivo (leadership e energia motivazionale) da quello negativo (intemperanze e atteggiamenti arroganti, in campo e fuori). Al contrario di Cristiano Ronaldo – che cerca di apparire come un personaggio buono a tutto tondo – Ibrahimovic di se stesso dice: “La mia filosofia? Me ne frego di quello che pensa la gente e non sono mai stato a mio agio fra i tipi perbenino. Si può togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo”.
Tanto per intenderci, il futuro campione (figlio di padre bosniaco e madre croata) era uno che, da adolescente, in Svezia, per andare agli allenamenti rubava le biciclette e le abbandona dove capitava. Ecco cosa scrive nella sua autobiografia “Io, Ibra”:
“Da ragazzino mi rubarono una BMX che mi aveva regalato mio fratello. Nemmeno mio padre riuscì a ritrovarla, ero disperato. Dopo quell’episodio cominciai a fregare biciclette anch’io. Aprivo i lucchetti, ero diventato un maestro. Bang, bang, bang e la bici era mia. Un ladro di biciclette, fu la mia prima identità”.
Capirete che non è facile combattere contro se stessi, contro il Mister Hyde che dall’interno è impegnato a rovinare la propria carriera di formidabile talento. Eppure Zlatan – dopo mille peripezie magistralmente raccontate nel libro sopracitato – dà una svolta al suo dialogo interno, iniziando a capire veramente quale fossero i suoi reali obiettivi e la sua missione di calciatore predestinato. “Quando conobbi Mino Raiola (che sarebbe poi diventato il suo storico manager), mi colpì quel suo linguaggio grintoso, diretto, senza giri di parole. Mi piaceva. Capii subito che volevo lavorare con un tipo del genere, uno che la pensava allo stesso modo di come la pensavo io”.
Al primo incontro, Raiola aggredisce Ibra leggendo dei fogli con una sfilza di nomi e cifre: Christian Vieri 27 partite, 24 gol; Filippo Inzaghi 25 partite, 20 gol; David Trezeguet 24 partite, 20 gol. Per ultimo c’è Zlatan Ibrahimovic 25 partite, 5 gol. “Come credi che possa venderti con una statistica del genere?” dice il manager. Lo svedese stizzito pensa “Che razza di aggressione è questa?”.
Poi Raiola prosegue nell’attacco: “Tu ti credi tanto figo, eh? Credi di potermi impressionare con il tuo orologio, la tua giacca firmata e la tua Porsche. Ma non è così, proprio per niente. Io trovo che siano tutte cazzate! Vuoi diventare il MIGLIORE del mondo? Oppure quello che guadagna di più, per poter andare in giro con tutto questo genere di gingilli?”
“Sì, il migliore del mondo!” risponde Ibra.
“Bene! Perché se diventi il migliore del mondo, arriveranno anche i soldi e tutto il resto. Ma se insegui solo il denaro, allora non otterrai nulla, capisci?”
Zlatan fa sì con la testa. Ci pensa su solo qualche minuto, poi dice: “Non ce la faccio ad aspettare, voglio cominciare a lavorare con te adesso, subito”. Raiola sta un po’ in silenzio, poi risponde: “Se vuoi lavorare con me, dovrai fare come dico io”. “Certo, assolutamente” annuisce Ibra.
“Dovrai vendere tutte le tue macchine lussuose. Dovrai vendere i tuoi orologi da migliaia di euro. E cominciare ad allenarti tre volte più duramente. Perché la tua statistica fa schifo!”.
Dopo un moto di ribellione interna, Zlatan nel giro di qualche giorno capisce che l’agente ha ragione. Comincia a girare con la Fiat Stilo del club, mette da parte gli orologi d’oro e ritorna a indossare le sue tute sportive. Ma soprattutto, Ibrahimovic inizia ad allenarsi come un pazzo, sfinendosi letteralmente a ogni seduta. “Fino a quel momento – dice lui – ero stato poco esigente con me stesso, credevo di essere il più figo di tutti, ma avevo un atteggiamento completamente sbagliato. In realtà avevo segnato troppi pochi gol, ero stato troppo indolente. Mino aveva ragione: non ero abbastanza motivato”.
Il lavoro sull’identità è quello più potente
Su questo punto specifico chiediamo un commento a Lorenzo Marconi, mental coach di ISMCI: “Leggendo la storia di Ibra, si capisce che questa nuova sfida con Raiola lo stimola fortemente, rafforza la sua mentalità da vincente. Da quel momento Zlatan inizia a dare tutto se stesso, vuole vincere anche l’incontro o la gara più insignificante, anche la partitella di allenamento. Impara a non mollare, sente che sta diventando uomo e vuole consolidarsi come campione. Come il migliore al mondo”.
Rispetto ai primi anni, nei quali lo svedese giocava a calcio solo per guadagnare soldi (evidentemente spinto dal senso di rivalsa per riscattare la sua infanzia povera), Ibra capisce che puntare a “voler fare” o a “voler avere” è un obiettivo molto più debole rispetto al “voler essere”.
“È proprio così – aggiunge Marconi – Zlatan decide di “voler essere”, di lavorare sull’identità per sentirsi un campione 24 ore al giorno. Quella per tutti, non solo per lui, è la motivazione più potente che esiste! Sentirsi un professionista è ben diverso che ‘fare’ il professionista. Esserlo ti fa sentire allineato con la propria missione e soddisfa il bisogno di crescita e di contributo. Che è molto più gratificante del puntare solo a guadagnare dei soldi. Sono temi importanti, che ogni giovane atleta dovrebbe sviluppare e coltivare. Magari con l’aiuto in un mental coach, specie nella fase delicate di passaggio all’età adulta”.
Lorenzo chiude con un episodio personale. “L’altra sera ero distrutto dopo una giornata di lavoro tra riunioni e appuntamenti. Prima di cena dovevo fare una sessione di coaching con un atleta. Ero stremato e sul punto di rimandarla. Poi sono andato in bagno e guardandomi allo specchio mi sono detto: ‘sono un coach, ho una responsabilità verso il mio atleta, vai e dai il meglio!’ Quindi ho lavorato su respirazione e fisiologia, sono entrato nello stato giusto, proprio come insegno ai miei atleti. Senza essere Ibrahimovic, ho dato il meglio che potevo, con le risorse che avevo. Ed è andata molto bene!”.