La vicenda dell’espulsione di Gonzalo Higuain in Milan-Juve è un Bignami di teoria del mental coaching. C’è tutto. C’è l’eroe prigioniero della sua storia. Ci sono gli avversari, tanti, troppi da gestire tutti insieme. Ci sono frustrazioni, fantasmi, torti da rivendicare, rodimenti da guerriero incompreso. Ci sono quelli che lo attaccano, quelli che lo redarguiscono, quelli che lo perdonano, quelli che lo capiscono. C’è pure un campione del mondo come Matuidi che con fare ecumenico lo bacia sul collo al momento dell’uscita dal campo. Un romanzo ricco di passione. Un melodramma.
Il calcio è una cosa seria, non tanto per il gioco in quanto “metafora della sfida tra due fazioni”. È seria per chi sa leggere in controluce i comportamenti dei protagonisti: che guarda caso sono uno specchio fedele degli atteggiamenti di ognuno di noi. C’è molto da imparare, specie per i giovani sportivi che ne vogliono fare una professione. E c’è molto da imparare per i tecnici e i mental coach, che parallelamente a schemi tattici e noiosi allenamenti fisici, possono trarre un fiume di indicazioni utili a gestire la cosa più difficile: la mente di un atleta.
Negli archetipi dei personaggi di una storia, il Pipita è una sorta di pulcino Calimero. Per noi “anziani” che vedevamo Carosello, Calimero è ancorato a frasi celebri del tipo: “Eh, che maniere! Qui tutti ce l’hanno con me perché io sono piccolo e nero… è un’ingiustizia però!”. Higuain guardava Carosello? Non credo.
Credo piuttosto che inconsciamente esista a livello collettivo una tipologia di eroe che rimane appunto prigioniero della sua storia, senza mai arrivare alla rivelazione finale: quella cioè dove le vicende passate ti hanno elevato a un punto in cui “vedi finalmente tutto”. La soluzione delle tue angosce, l’inconsistenza di certe paranoie, la buona fede di qualcuno che involontariamente ti ha fatto del male. E perdoni tutti, senza più rabbia e scenate per il pubblico.
Se riguardiamo il labiale delle frasi che Higuain ha pronunciato con veemenza verso l’arbitro, scopriremo proprio questo. Dire più volte “Ammonisci sempre me! Ammonisci sempre me!” equivale a vedere avversari ovunque, come in un videogioco dove più sali di livello e più la vita diventa complicata. A dispetto di tutto ciò che hai fatto di buono fino a quel momento.
È probabile, visti i precedenti, che il Pipita sia entrato in campo con uno zainetto addosso pieno di torti subiti da rivendicare. Ce l’ha con Cristiano Ronaldo, che gli ha rubato il posto per ben due volte (una a Madrid e una a Torino). Ce l’ha con la sua ex squadra “che mi ha cacciato”. Ce l’ha col mondo. E allora capisce che per cadere da solo in battaglia, deve spingere via tutti.
Higuain spinge via Kessie dal dischetto del rigore (che poi gli verrà parato da Szczesny, uno che si è allenato mesi e mesi con lui e lo conosce bene). Spinge via gli ex compagni della Juve, dopo che ha urlato di tutto in faccia all’arbitro, che non può far altro che cacciarlo. Spinge via Cristiano Ronaldo che provava a calmarlo, dicendogli di non esagerare per evitare squalifiche. Spinge via anche i suoi compagni attuali, mentre esce con le lacrime agli occhi e la maglia sulla faccia, in piena crisi di nervi.
La sceneggiatura prevede che l’eroe che si macchia di una colpa debba chiedere scusa. Higuain lo fa, davanti alle telecamere (“Non deve più succedere, siamo di esempio per i bambini”). Lo fa andando nello spogliatoio dell’arbitro a fine gara. Lo fa scusandosi sui social con i compagni, con la società Milan, con i tifosi rossoneri. La frase esatta è: “Mi faccio carico delle mie responsabilità e farò il possibile perché non ricapiti”.
La sensazione è che lui stesso non creda fino in fondo alla promessa fatta. Sotto l’aspetto caratteriale Higuain ha sempre mostrato dei limiti in questi anni. Non è la prima volta infatti che l’argentino si lascia andare con sfuriate contro direttori di gara, avversari, compagni che non gli passano la palla. È un giocatore che sente molto la competizione, vive per il gol e quando non segna o non gli riesce la giocata, si inviperisce. Lui stesso, insieme alle scuse di fine gara, ha aggiunto rispondendo ai giornalisti: “A volte è difficile gestire le emozioni, stavamo perdendo, avevo sbagliato un rigore, giocavo contro la mia ex squadra. Non è una giustificazione, ma siamo uomini, non siamo dei robot, l’arbitro deve capire il momento. Io me la prendo troppo, ma sono fatto così, è difficile cambiare”.
Lavorare con un mental coach significa riuscire a saltare fuori dalla propria storia, liberandosi di zavorre penalizzanti, per imparare a riscriverla ogni giorno con gli ingredienti giusti. Facendo tesoro di esperienze positive e negative, ma lasciando il fardello di emozioni depotenzianti sullo sfondo, come una cornice da cui prendere spunto. Perché giocare con la sensazione che il blackout sia sempre dietro l’angolo, ti fa perdere lucidità e concentrazione. E soprattutto il sorriso di chi dovrebbe divertirsi e far divertire.