Se ancora a qualcuno non è chiara la differenza tra talento e leadership, basta rileggersi la parabola del Brasile ai Mondiali – eliminato da un sorprendente Belgio – per sciogliere qualsiasi dubbio. I segnali c’erano tutti.
Partiamo dal commissario tecnico, incaricato di gestire uno spogliatoio di modesti talenti: per Adenor Leonardo Bacchi detto TITE, accorgersi della mancanza di un vero leader è uguale a percepire il rumore di un castoro che sta segando i pali della tua palafitta.
Rileggendo il tutto in chiave mental coaching, si avverte la mancanza di un lavoro finalizzato a rinnovare l’identità di un intero movimento calcistico. A espanderla passando da un “siamo sempre quelli spettacolari” a un “siamo anche quest’altro”. A conferma di ciò, in conferenza stampa prima della disfatta, Tite rispondeva così: “Cos’è oggi la nazionale brasiliana? Noi incentiviamo la magia, creiamo spettacolo”. Solo questo, TITE?
L’affermazione – apparentemente motivante – circoscrive in realtà il raggio d’azione mentale dei suoi ragazzi. È una frase che incatena i calciatori a una credenza identitaria che andava bene ai tempi di Pelè, Zico e Falcao, quando la squadra verde-oro praticava davvero il samba all’interno del rettangolo di gioco.
Ma oggi, con la maggior parte dei propri campioni che giocano in Europa, ha ancora senso restare agganciati all’idea di Fútbol bailado? Non rischia di trasformarsi in zavorra emotiva? Sta di fatto che ai quarti di finale sono approdate 6 squadre europee su 8. E di queste, le due sudamericane (Uruguay e Brasile) sono subito state escluse dal circolo delle prime quattro (Francia, Belgio, Inghilterra e Croazia).
Qualcuno – statistiche alla mano – obietterà che il Mondiale russo passerà alla storia come quello delle grandi decadute (Brasile, Argentina, ma anche Germania, Spagna e Portogallo, per non parlare dell’Italia neppure qualificata). Vero. Ma il Brasile, bloccato nel creare spettacolo contro formazioni solide e intelligenti, alla fine è scivolato nelle sabbie mobili delle sue stesse credenze. Ha vissuto il conflitto mentale di dover da una parte snaturare il proprio gioco per scardinare gli avversari, e dall’altra di deludere tifosi, osservatori e addetti ai lavori, rimasti orfani della… magia. Nè carne né pesce: colpiti e affondati in mezzo al guado.
Black list in salsa verde-oro
I segnali da gestire mentalmente erano anche altri. Se all’assenza di leadership aggiungi l’ingenuità di assecondare i fluidi negativi – in un Paese tradizionalmente scaramantico – allora il tunnel verso lo psicodramma può definirsi completo.
- La Waterloo di quattro anni fa, quando la Germania asfaltava i brasiliani a casa loro con sette gol (a uno). Dramma indimenticabile che ha creato un ancoraggio negativo.
- Il pendolo emotivo, che fa passare un intero popolo dall’euforia del Fútbol bailado alla depressione e alla paura di perdere. L’esordio con pareggio contro la Svizzera è un esempio in tal senso.
- La storica refrattarietà allo spirito di sacrificio del Brasile, che fa trascurare gli allenamenti ritenuti inutili e poco spettacolari. Tite su questo ha lavorato molto, ma con discreti risultati.
- Il portiere Alisson al centro del calcio-mercato, e sottoposto per questo a grandi pressioni. In un torneo dove i portieri si stanno dimostrando i veri protagonisti (con exploit tecnici durante i calci di rigore), stare sotto i riflettori alla lunga è logorante.
- La mancata autorevolezza di questi giovani calciatori “social addicted” rispetto ai campioni di Seleçao passate. Qualche nome? Falcao, Zico, Junior, Toninho Cerezo. Ma anche Ronaldo (il Fenomeno), Cafu, Romario, Aldair. Per passare una serata piacevole, andreste a cena con il povero Fernandinho (responsabile dei due gol subiti contro il Belgio, ma con quasi due milioni di follower sui social) o sareste andati con il compianto Sócrates, dottore in Medicina, figlio di un povero dell’Amazzonia appassionato di classici greci?
- La maledizione del 6 luglio. Per i superstiziosi, una data inquietante che ricordava la gara persa dal Brasile contro la Polonia. Erano i Mondiali del 1974, in Germania: finale per il terzo posto, per la Nazionale polacca il miglior risultato della storia.
- Poveri orfani. Scandagliando la storia antropologica dei calciatori brasiliani, un giornalista locale ha scoperto come 8 dei 23 nazionali brasiliani presenti in Russia siano cresciuti senza il padre. Qualcuno morto, qualcuno sparito, qualcuno allontanatosi dalla famiglia. Associare questo dato alla mancanza di carattere è esagerato, ma il diffondersi della notizia non ha certo aiutato.
Il tarantolato
E infine Neymar-Merola, di cui ricorderemo le sceneggiate. Vittima delle sue stesse teatralità, l’atteso campione brasiliano ha ingaggiato una corrosiva battaglia contro arbitri, avversari e osservatori. Costringendo compagni e allenatore a un’imbarazzata difesa d’ufficio in suo favore. L’unico che ha detto parole illuminanti è stato Bobo Vieri (proprio lui!) che da esperto bomber di aree di rigore ha spiegato: “Neymar non è un simulatore, al massimo accentua le reazioni. Essendo leggero e velocissimo, per fermarlo gli riservano un trattamento speciale: lui salta in aria per via della leggerezza, è normale che le entrate siano sempre eccessivamente dure. Altrimenti non lo prendi”.
Il paragone con Cristiano Ronaldo e Messi? Non regge, specialmente a livello mentale. Quei due hanno credenze inossidabili e non devono ricorrere a sceneggiate. È gente che ha vinto tanto e mette coraggio in ogni azione. Neymar è ancora leggero: non solo di fisico, ma anche di cuore. E di questo, un intero popolo in lacrime se n’è impietosamente accorto.