
Il campionato italiano di calcio si è appena concluso con l’ennesimo trionfo bianconero, il quinto consecutivo. Vittoria strameritata conquistata con 9 punti di vantaggio sul Napoli. La svolta è avvenuta lo scorso 13 febbraio, quando nello scontro diretto di Torino un sinistro di Zaza a due minuti dal termine ha consentito ai bianconeri di sconfiggere i partenopei e scavalcarli in classifica. A quel punto la Juve ha preso il volo, mentre il Napoli, pur mantenendo un onorevole ruolino di marcia, ha rallentato e non è più stato in grado di impensierire la squadra di Allegri. Anzi, nelle ultime giornate, complice il ritorno della Roma, ha rischiato di compromettere anche il secondo posto.
Cosa è successo al Napoli dopo la sconfitta di Torino? Non spetta a me addentrarmi in analisi tecnico-tattiche, ma è certo che l’abitudine a vincere della Juventus ha avuto la meglio sull’euforia e la volubilità di spirito del Napoli. Maurizio Sarri, forse il miglior allenatore della stagione, a mio modesto avviso ha commesso un errore di comunicazione dopo la sconfitta subita allo Juventus Stadium. Lo ha fatto in buonissima fede e con l’obiettivo di sdrammatizzare la battuta d’arresto, ma la sua dichiarazione ha sortito l’effetto di attenuare il sacro fuoco del gruppo fornendogli un alibi. Sarri, infatti, nel dopo-partita ha dichiarato: “Abbiamo perso. Pazienza. Non siamo certo obbligati a vincere lo scudetto”. Ecco la frase letale, la frase che sottintende l’individuazione di un obiettivo diverso e inferiore al tricolore (la qualificazione in Champions League), la frase meno indicata per chiamare la sua squadra all’immediata riscossa.
Un condottiero che dichiara pubblicamente che non è obbligatorio vincere quale messaggio lancia alla sua truppa? Che il secondo posto è già un successo. E qual è l’effetto emotivo che riverbera sul gruppo? Il venir meno di quel “qualcosa in più” di ferocia e determinazione che ciascun soldato riesce a dare quando è sostenuto dal desiderio famelico di raggiungere un obiettivo grandioso.
Le parole che scegliamo condizionano non solo noi stessi, ma anche i nostri interlocutori. Pensiamo a un ipotetico coach che, prima della partita, si rivolga allo spogliatoio utilizzando termini scialbi, depotenzianti e confusi. Alcuni esempi? «Speriamo di vincere», «L’importante è non prendere il primo gol», «Speriamo di fare una bella partita». In queste espressioni sono racchiusi una serie di errori: «mi piacerebbe», «speriamo», «vorrei tanto» sono frasi adatte ai pensionati che il sabato mattina vanno a giocare al Lotto e sognano una vincita milionaria, non a un atleta la cui prestazione dipende solo dalle sue capacità. Quindi nessun condizionale e nessun termine dubitativo: «Oggi voglio vincere», «Oggi voglio vincere perché ho tutto ciò che mi serve per vincere».
La questione è fondamentale: le parole sono la tua realtà, il modo in cui attimo per attimo ti racconti cosa sta accadendo dentro e attorno a te; le parole che utilizzi per descrivere le tue intenzioni si trasformano in dati di fatto. Parole come “speriamo” sono autogol perché ti deresponsabilizzano e spostano il focus da te al mondo esterno. Va bene sperare quando si tratta di seguire in tivù o allo stadio la squadra del cuore, va bene sperare che domani ci sia il sole perché hai organizzato una gita al mare, va bene sperare ogni volta che ti riferisci a qualcosa di estraneo alla tua sfera di controllo. Non va affatto bene sperare quando il protagonista dell’evento sei tu. Altro che sperare, devi attivarti affinché le cose vadano nella direzione desiderata.