
Se sei un mental coach sportivo, o un atleta innamorato della tua disciplina, sarai di certo un appassionato lettore di storie che raccontano la vita dei campioni. Lì dentro trovi di tutto: il modo in cui i grandi sportivi hanno affrontato le difficoltà, l’energia che ci hanno messo per superarle, i limiti che sono riusciti a oltrepassare nonostante le credenze negative.
Muhammad Alì era un fuoriclasse con una storia personale che funziona più di mille sedute di coaching. In occasione della recente scomparsa del “campione di tutti i tempi” – quel pugile che ha reso la boxe una metafora della vita e del riscatto sociale per milioni di uomini di colore in tutto il mondo – sono usciti in Rete e sui giornali decine di articoli e interviste che rievocavano le gesta di Cassius Clay (questo il suo nome americano, prima della conversione all’Islam e al Sufismo).
Leggendone alcune, e rivedendo immagini d’epoca, il tratto distintivo, il valore che contraddistingue la figura di Muhammad Alì è soprattutto uno: un’innata superiorità non solo tecnica, ma anche fisica e morale. I combattimenti li vinceva ancora prima di scendere sul ring. Li vinceva davanti alle telecamere, davanti ai taccuini dei cronisti di mezzo mondo. La sua sfrontatezza – ma anche il posizionamento che si era scelto, ovvero quello di testimonial della lotta contro l’apartheid – lo collocavano al centro del ring mediatico ben prima di indossare i guantoni.
Celebre è la storia dell’incontro del secolo, nel 1974 in Zaire, contro il campione in carica George Foreman, dove riconquistò i titoli persi sette anni prima. Prima di quella sera Clay si ritagliò il proprio spazio insistendo sui tratti provocatori, e parlando liberamente anche di problemi non legati al pugilato. Di fatto, trasformò profondamente quel ruolo e quell’immagine iniziale di atleta afroamericano statunitense, diventando punto di riferimento del Potere Nero. Viceversa Foreman si mostrò timoroso, venne addirittura in conferenza stampa con in braccio un cane lupo: episodio questo che contribuì a comunicare un senso di paura e un bisogno di essere difeso da un pericolo incombente.
Spesso i bravi coach sportivi consigliano agli atleti di non “sbracare” la loro immagine nel tempo libero. L’integrità di un campione (ma anche la sua reputazione) si percepiscono anche fuori dal campo, nei gesti e nei comportamenti della vita di tutti giorni. La superiorità morale di Muhammad Alì fu ancora più evidente in due occasioni. La prima è quando il Papa stesso – l’allora Pontefice Giovanni Paolo II – accettò di incontrare il campione delle Olimpiadi del 1960, di passaggio a Roma in quei giorni (per la cronaca, durante l’incontro i due finirono per parlare di temi mondiali, di diritti umani ma anche di pugilato!). La seconda occasione fu quando, sempre a Roma, Alì si ritrovò a cena – insieme all’amico giornalista Gianni Minà – con Robert De Niro, il regista Sergio Leone e lo scrittore Premio Nobel per la letteratura Gabriel García Márquez. Tutti e tre a Cinecittà sul set del film “C’era una volta in America”, ma tutti e tre desiderosi di incontrare a cena il loro idolo preferito di tutti i tempi.
Un’ultima caratteristica da leader – presa poi in prestito da politici e sportivi che sarebbero venuti dopo di lui – fu quella di saper gestire le interviste in modo tale da infilare nelle risposte qualche argomento extra-sportivo a lui caro. Un’abilità che lo ha portato a essere portavoce di decine di battaglie sociali e antirazziali. Che lo ha reso popolare in tutto il mondo, amato nei cinque continenti e rimpianto da tutti i grandi della Terra. Fino a Barack Obama: in un messaggio letto alla cerimonia funebre di Lousville, il presidente Usa ha scritto: “Muhammad Ali è stato l’America. Muhammad Ali sarà sempre l’America. L’uomo che celebriamo oggi non è solo un pugile, un poeta o un agitatore o un uomo di pace. Non era solo un musulmano o un afroamericano o un bambino di Louisville. Non è stato solo il più grande di tutti i tempi. Era Muhammad Ali”.