“Se vuoi correre ad esempio i 5.000 metri in 14 minuti, anche se sei allenato per correrli in 13:30, ma la tua mente non è connessa, li correrai in 16 minuti. Io non corro solo con le mie gambe, ma corro anche con il cuore e con la testa. L’allenamento mentale gioca un ruolo fondamentale durante le gare. Se non comandi la tua mente, sarà la mente a comandare te” – Eliud Kipchoge
L’impresa di Eliud Kipchoge
Evento di marketing? Scarpe bioniche? Lepri aerodinamiche? Stanno provando a smontare il record di Eliud Kipchoge, il keniota diventato il primo atleta al mondo a correre in meno di due ore la distanza di una maratona (1 ora 59 minuti e 40 secondi). Non verrà omologato perché realizzato a Vienna in una competizione non ufficiale (e quindi non aperta a tutti). E fin qui ci può stare.
Molti puntano il dito perché ad aiutare l’atleta c’era una squadra di 41 corridori professionisti (le cosiddette “lepri”) che si sono date il cambio lungo tutto il percorso in formazione aerodinamica, in modo da consentirgli di risparmiare energia preziosa e ridurre l’impatto con l’aria per superare il muro delle due ore. Altri ancora parlano di un raggio laser proiettato sul terreno da un’auto elettrica, per aiutare Kipchoge nell’impresa, tracciandogli il giusto ritmo in tempo reale. Poi c’è chi fa appello ai motociclisti che gli passavano i rifornimenti in corsa: procedura non consentita nelle gare ufficiali in cui invece gli atleti devono raccogliere bicchieri e borracce da tavolini piazzati ai bordi della strada.
L’ultima “indagine” uscita in queste ore è quella che ha per oggetto le scarpe con cui Kipchoge ha corso la maratona di Vienna. “Doping tecnologico”, scrivono alcuni giornalisti riferendosi all’inchiesta aperta dalla Federazione Mondiale (Iaaf) che vuole vederci chiaro sul modello di calzatura agonistica, Un tipo di scarpa, con soletta ricurva in fibra di carbonio, in grado di restituire una forte reattività, migliorando – pare – le prestazioni del 4%. Come correre con le molle di Paperinik.
Detto tutto questo, quasi nessuno sembra aver colto il significato profondo dell’impresa. Che è soprattutto psicologico e mentale. Mettiamo da parte i puristi che storceranno il naso e i polemici che vedono gli sponsor come il male assoluto. Ufficiale o no, l’impresa di Vienna passerà alla storia perché da oggi tutti i rivali non avranno alibi. Ora un essere umano può correre una maratona sotto le due ore. Si può fare. “Ognuno di noi se si prepara nella sua vita può raggiunge risultati impossibili“, ha detto Eliud Kipchoge a fine gara. “Volevo ispirare tante persone, nell’idea di spingersi oltre i limiti umani, ci ho provato tante volte e questa volta ci sono riuscito“.
Battere un record come questo sembrava impensabile anche solo fino a poco tempo fa. Per anni i migliori maratoneti del mondo correvano costantemente fra le due ore e cinque e le due ore e dieci minuti, senza mai avvicinarsi alla cifra tonda.
Il primo che immaginò che il record potesse essere battuto durante una corsa speciale e grazie all’uso di diverse innovazioni tecnologiche fu Ed Caesar, uno scrittore britannico che nel 2016 scrisse Due ore. Alla ricerca della maratona perfetta, ipotizzando che il record sarebbe stato battuto nel giro di vent’anni. In realtà, già l’anno successivo Kipchoge ci andò molto vicino: all’autodromo di Monza, su un percorso perfettamente pianeggiante e senza il minimo ostacolo, a differenza delle strade cittadine in cui si corrono le maratone normali. Anche in quell’occasione l’orario e le condizioni climatiche previste per quella mattina erano state ritenute ottimali, ma Kipchoge non riuscì a scendere sotto le due ore. Era il 2017.
Abbattere le credenze collettive
La storia di Eliud Kipchoge ci riporta a quella di Roger Bannister, il primo uomo sulla Terra a correre la distanza del Miglio in meno di quattro minuti. Come essere andati sulla luna. Il miglio inglese equivale a 1.609 metri e 36 centimetri e per i britannici è un brano di Shakespeare su pista: resistenza e velocità. Bannister lo corse in 3’59″4. Era l’atterraggio in un altro mondo.
“Quel giorno in treno mentre andavo all’Iffly Road di Oxford – ha raccontato lui stesso – incontrai Franz Stumpfl che fece il viaggio con me e trovò le parole giuste. allora non lo chiamavo coach, ma mi fidavo dei suoi consigli. Credeva nella forza della volontà. Era naufragato, era sopravvissuto per oltre quattro ore nelle gelide acque dell’Atlantico. Il suo motto: don’t worry, it’s only pain. Non preoccuparti, è solo dolore. Se te lo diceva, ci credevi, l’aveva vissuto sulla sua pelle“.
La difficoltà, ha spiegato Bannister, non era solo quella di battere il record dello svedese Haegg, 4’01″4. “Il punto non era che dovevo migliorare di due secondi: è che il record durava da nove anni! I quattro minuti sul miglio erano le colonne d’Ercole. Tutti erano convinti che fisiologicamente un uomo non ce la potesse fare, il cuore avrebbe ceduto. Ma io studiavo neurologia e sapevo che per andare al di là l’organo più importante è il cervello“.
Come volevasi dimostrare. Scendere sotto i quattro minuti – il record che sturò un’epoca – durò appena 46 giorni: l’australiano John Landy lo portò a 3’58″0. L’inglese aveva scardinato una porta invalicabile oltre la quale ci sono passati tutti.
“Il segreto è sempre quello – ha dichiarato Bannister – l’abilità di tirare fuori quello che non hai o che non sai di avere. Per quanto mi riguarda, la mia mente si era abituata a correre pensando alle bombe e alle incursioni aeree che avevo sentito durante la seconda guerra mondiale in Gran Bretagna. Se sentivo di non essere abbastanza veloce, immaginavo di dovermi salvare da un bombardamento, o dai bulli che mi inseguivano“.

Spiega Roberto Re nel suo libro “Leader di te stesso“. “Ciò che rese leggendaria l’impresa di Bannister fu il fatto che nel mondo sportivo dell’epoca era credenza comune che il tempo di quattro minuti per correre il miglio fosse un limite umanamente insuperabile. Questa convinzione collettiva risaliva addirittura alla prima metà dell’Ottocento quando un medico, allora considerato un grande luminare, affermò, in un trattato relativo alle capacità cardiache, che, se portato a superare quel limite, il cuore sarebbe letteralmente esploso all’interno della cavità toracica. Oltre un secolo dopo, senza più saper spiegare il perché, tutto il mondo credeva fermamente impossibile fare ciò che Roger Bannister dimostrò invece realizzabile. E la parte più stupefacente della storia è in realtà ciò che accadde subito dopo l’impresa di Bannister: nell’anno successivo più di trentacinque atleti riuscirono a correre il miglio al di sotto dei quattro minuti, e nell’arco di tre anni oltre trecento furono in grado di ottenere il medesimo risultato! Ciò che per secoli era stato impossibile per milioni di atleti era diventato improvvisamente alla portata di tutti”.
“Le credenze, o convinzioni profonde, di qualunque genere siano, quando sono depotenzianti sono come uno zaino di mattoni che l’atleta porta con sé. In questo caso si tratta di una credenza collettiva, ma quelle legate all’identità sono altrettanto potenti. Difficilmente in presenza di una convinzione profonda negativa l’atleta riuscirà ad ottenere ciò che consciamente desidera, se il suo inconscio non andrà nella stessa direzione la prestazione risulterà fortemente influenzata. Il lavoro di cambiamento di una credenza da depotenziante a potenziante è uno dei lavori fondamentali da eseguire con l’atleta. Solo con un ascolto attento che coinvolge tutti i sistemi rappresentazionali e tutti i sensi, il mental coach ha la possibilità di cogliere e individuare le convinzioni profonde che risiedono nel campione e potrà lavorare per il cambiamento necessario, utile al raggiungimento della prestazione auspicata.” Lorenzo Marconi – Sport Mental Coach